SIBILLA ALERAMO E TERESA TALLONE

E UNA POESIA INEDITA DI MARIA BORGESE A TERESA

Gigliola Tallone febbraio 2011

Teresa Tallone, 1911, foto di Emilio Sommariva, Biblioteca Nazionale Braidense, Fondo Emilio Sommariva, Milano

“…Donna, donna! L’ho amata e l’amo con senso ineffabile, credo che nessuna creatura o cosa m’abbia al par di lei, prima d’incontrarti, sollevata l’anima a ringraziar la divinitá, nessun uomo e nessuna opera di genio, nessuna alba sul mare o sulla foresta, nessuno dei tanti giardini dove freme la gioia segreta dei fiori…” Sibilla Aleramo, in Amo dunque sono.

Cosí scrive Sibilla dell’amica che ebbe piú cara fra tutte, nel suo libro Amo dunque sono, e di lei parla ancora ne Il frustino, “ove la chiamai Giulia”.
Lei stessa indica questi due libri, in cui dedica parole straordinarie all’amica, nei suoi Diari, di cui ho riportato, nel mio libro dedicato al padre Cesare Tallone, Electa 2005, alcuni brani dalle pagine scritte il pomeriggio del 23 luglio 1942 e in occasione di Santa Teresa, il mattino del 15 ottobre 1944. (Per la gentile concessione dell’editore Carlo Feltrinelli e della esimia Anna Folli, che sta per pubblicare l’opera monumentale dei Diari di Sibilla Aleramo)
Cosí scrive di lei nei suoi Diari: “E che m’abbia voluto bene, lei alata, lei purissima, abbia creduto in me, m’abbia difesa dai vili insulti, è uno dei teneri e fieri titoli d’onore che porteró con me fino alla morte, quanto l’essere stata benvoluta e stimata da un Gorki, da una Duse, da un Rodin, da un Onofri…”
Parole scritte undici anni dopo la morte di Teresa Tallone, avvenuta il giorno prima del suo quarantesimo compleanno, il 27 febbraio 1933.
Teresa era dolce e trasognata, ma di lucido intelletto, madre tenerissima di tre figli e moglie adorante di Enrico Somaré, sposato il 1919, di cui era anche collaboratrice nell’atelier dell’Esame. Nel mio libro Virginia Tango Piatti (Agar), Transfinito, 2010, dedico alla zia Teresa, terzogenita di Cesare ed Eleonora Tallone, un breve ritratto, ricordando anche che la affezionata zia Virginia, sorella di Eleonora, accorse in aiuto del marito per curarsi degli infelici bambini rimasti orfani cosí prematuramente.
Era, Teresa, una creatura che aveva intorno a sé un’aura di tale bontá e grazia da indurre chi le stava vicino a riconoscere la sua natura spirituale.
Ho scelto perció di riportare in suo omaggio le parole a lei dedicate da Sibilla Aleramo nei due libri.
Riporto qui anche un’altra testimonianza d’affetto, la commovente poesia di Maria Borgese, in un foglio autografo un po’ macilento, scritta il mese di marzo il giorno successivo alla sepoltura di Teresa, dove il ritratto che ne fa è del tutto simile a quello di Sibilla.

Sibilla Aleramo, Amo dunque sono, Arnoldo Mondadori, Milano 1927
Cap. 7 luglio mattino, pp 33-37.

Sibilla si rivolge a Luciano alias Giulio Parise, giovane mago del cenacolo di Julius Evola, amato dalla scrittrice intorno al 1926

...Sera. Vorrei farti conoscere un giorno la mia amica piú cara, Teresa. Vorrei tu sentissi la nota della sua voce quando appoggia l’esile collo sulla mia spalla e: “Sibilla, dice, Sibilla mia buona!”
Ha i capelli lisci, divisi nel mezzo, occhi neri, e il piú perfetto volto di donna ch’io abbia mai contemplato, piccolo, ovale, ma dove l’espressione é cosí meravigliosa in ogni istante che la bellezza delle linee diventa valore secondario. La persona, il gesto, tutto é musica. Forse soltanto Shelley ebbe una tale trasparenza spirituale, nel luminoso aspetto tanta rivelatrice armonia. E ora tu rinnovi il prodigio, Luciano, ma meno costantemente di Teresa, poiché tu sei mago mentr’ella é santa. Ella trasfigura la materia per semplice dono di grazia, tu invece con elementi di volontá…
É santa, come una rondine. Ció ch’ella tocca trasvolando col frullo delle sue ali diventa benedetto. Piccola, dolce, inerme.
L’ho trovata una volta, un inverno, qui a Milano, senza fuoco, senza quasi alimento, con il suo secondo nato al petto, e sorrideva, non aveva un lamento, sorrideva dicendo: “Sai? Questo pó di debolezza mi fa veder tutti con un alone intorno, è divertente…”
Da fanciulla era una maliosa cosa di sogno, un’ispirazione di favola, con un intelletto d’amore cosí lucido e profondo che Dante o Shakespeare non hanno auspicato piú grande. Poi la sua vita le ha proposto il suo uomo, il suo poeta, ed ella l’ha accolto per proteggerlo, difenderlo, avvolgerlo in una perennitá di melodia, sí ch’egli realmente non percepisce intorno a sé miseria alcuna. Donna, donna! L’ho amata e l’amo con senso ineffabile, credo che nessuna creatura o cosa m’abbia al par di lei, prima d’incontrarti, sollevata l’anima a ringraziar la divinitá, nessun uomo e nessuna opera di genio, nessuna alba sul mare o sulla foresta, nessuno dei tanti giardini dove freme la gioia segreta dei fiori…Glie l’ho detto, talvolta, ma s’é schermita, movendo le delicate mani attorno alla mia fronte, arrossendo in umiltá tenera: “Sibilla buona! Sei tu che mi doni tutto quello che credi io sia!”. Ma sa di mentire, perció il viso le si colora con tanta gentilezza. Sa d’essermi cara come una figlia e come una madre insieme, e cosí son cara a lei, sua maggiore e sua minore, eguali d’essenza se bene la sorte sia stata cosí diversa, fortunate l’una e l’altra, ma piú ella, e piú degna, infinitamente…

Sibilla Aleramo, Il frustino, A. Mondadori Editore,1932
pp 96 -100
(Caris - Sibilla, Teresa - Giulia)

C’era alle falde di Monte Mario l’unica amica che ella desiderava abbracciare prima d’andar lontana.
-Giulia, eccoti i dolci per i bambini. Chissá quando potró tornare a portartene degli altri.
Il giubbetto di lana verde che Giulia indossava era aperto sul petto tutto venato stranamente come le alghe azzurre, magrissimo, ma con i piccoli seni gonfi di latte. L’ultimo nato dormiva nella culla. Gli altri piccini erano dalla nonna.
-E le finanze?-chiese Caris.
-Oh, sono ricca! Senti, mi confesseró a te. Ho fatto qualcosa di nascosto da mio marito, per la prima volta. Ecco, guarda qua, tutti i miei segreti. Polizze del Monte. Scadranno fra sei mesi. Speriamo che possa spegnerle prima che Ugo si accorga che mancano le posate d’argento. Ma é cosí distratto che non saprá nulla. Vedi, le polizze son qui, nel fondo della scatola dove Ugo tiene i suoi colletti; basterebbe alzasse questo foglio di carta per scoprirle. Ma non lo fará. Sai cosa m’ha dato animo l’altro giorno? Ero proprio disperata. A un certo punto, per sfogo, ho gridato:” Ma che santo é oggi?” e poi ho guardato il calendario al muro: Era Santa Foca, figurati, Santa Foca! Ho riso cosí forte che Ugo, che provava col suo violino di lá, m’ha udita e ha chiesto che cosa avessi. “Ho scoperto che oggi é Santa Foca!” E poi sono scappata al Monte, allegra.
Anche Caris rise.
-Io dico: basta veder Caris ridere per non dubitare della sua bontá. Come una bambina sei. Una meraviglia.
Chi le aveva fatto la stessa dichiarazione di recente? Ah, Mino, a Ravello.
-Vuoi giá andar via? Ti accompagno giú. Vengo ad aprirti il portone e intanto prendo un secchio d’acqua.
Mise sulle spalle una mantelluccia bigia. Qualunque cencio le stava bene, tanto era fine e bella.
Il porticato ad archi dell’antico casamento lasciava vedere il cielo. Col secchio in una mano, Giulia passó l’altro braccio attorno al busto della musicista.
-Cara. E ora riparti. Sono triste. É egoismo, lo capisco. Ma non vorrei mai lasciarti. Lo sai che dai tu coraggio a noi piú giovani?
In silenziosi guizzi la tenerezza si comunicava cosí fra loro, e la contentezza di esser vicine, ancora.
Veniva innanzi dal fondo del porticato oscuro una figura di vecchia, con in mano un lumicino ad olio.
-Rembrandt-disse Giulia.
Pareva d’esser lontani dalla cittá chissá quanto, e anche dal tempo.
Scesero strette le poche scale, e nell’androne c’era la pompa dell’acqua. Giulia pose il secchio sotto la cannella.
-Ecco, io non sono qui a cavare acqua, io sto remando.
Con un braccio tirava lo stantuffo della pompa, coll’altro ritmava il gesto di chi trae a sé il remo.
Molt’anni prima, quando non ancora si era sposata, Giulia aveva un giorno cosí guidata una barca su un piccolo lago, e condotta Caris a cogliere ninfee.
La cosa piú rara al mondo é il dono della trasfigurazione.
Ogni attimo della vita sarebbe a priori suscettibile di venir sentito come miracolo. D’esser veduto sotto la specie magica.
Ma, or manca la potenza fantastica, or questa no s’accorda, oppur stride, con gli elementi sui quali operare.
Lo stesso poeta, ad esser sincero, non riconosce se non di quando in quando una identitá perfetta tra la sua forza d’incantesimo e i ritmi e le melodie fluttuantigli intorno…

Teresa e il fratello Guido nel salone di Alpignano, 1910 circa, foto Archivio Tallone

Maria Borgese, Milano 1933

Teresa Somaré Tallone

Marzo! Marzo! Marzo! È il primo
mattutino di marzo
ha detto svegliandomi
la campana di San Simpliciano.
Ho pensato, aprendo gli occhi,
a te, piccola Madre
che stamane non hai potuto
aprire i tuoi begli occhi di velluto
perché ieri t’han messa nella bara.
Spalanco la finestra, m’affaccio.
Vento, pioggerella,
barlumi di sole
attraverso una nuvola chiara
trasparente come il quarzo.
E t’ho proprio rivista
semplice, nelle mosse leggiadre,
camminare per il cortile
con quel tuo passo alato,
cosí alto e sottile,
con tutti quei neri capelli
lisci, lisci, divisi
sulla piccola testa
dal profilo delicato
assomigliavi oh! Quan(to)[alla Venere]
del Trono Ludovisi.
Talvolta anche correvi
con l’ultimo nato in braccio
e i due piú grandicelli
attaccati alla tua gonnella.
Cantavi con loro, ridevi,
cinguettavi. Eravate
una gioia guardarvi, una festa!
Ora s’è levato il vento
ghiacciato come in pieno inverno
e son grigie e dense le nuvole.
Sapessi come penso a Te!
E con quale accorato struggimento
al risveglio dei tuoi piccoli,
al tuo sonno eterno,
o Teresa Somaré.

Milano 33 Maria Borgese

Originale Archivio Tallone